Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
72 | Capitolo undecimo |
— Cosa vuoi dire? — chiese Albani.
— Che vi è da basso un certo uomo che si diverte a scrollare la nostra capanna.
— Un uomo!... — esclamarono il genovese e il veneziano.
— Potete vederlo: è sotto di noi. —
S’appressarono entrambi all’orlo della piattaforma, ma subito retrocessero vivamente. Il misterioso personaggio, udendo senza dubbio quelle voci, si era arrampicato fino alla piattaforma, sporgendo innanzi la testa. Altro che uomo!... Quella testa, se rassomigliava a quelle umane, era ben brutta!... Era una testaccia enorme coperta di folti peli rossicci, colla faccia larga, gli zigomi assai sporgenti, coperta da rughe profonde e con una bocca così larga che gli andava da un orecchio all’altro, armata d’una doppia fila di denti bianchissimi e acuti come quelli delle tigri.
L’espressione di quel volto era così feroce, da agghiacciare il sangue.
— Tuoni di Genova! — esclamò il marinaio — che uomo è questo?...
— Indietro! — gridò Albani, con voce alterata. — Il mias pappan è peggiore delle tigri. —
Il marinaio ed il mozzo, quantunque ignorassero che cosa fosse un mias pappan, furono lesti a girare sui talloni.
Il mostro guardò i tre naufraghi con due occhi che mandavano sinistri bagliori, fece udire un rauco brontolìo, poi scomparve, ma impresse ai bambù un tale urto che parve che l’intera capanna si disarticolasse.
— Fulmini! — urlò il marinaio, precipitandosi verso la scure.
— Un altro urto come questo e ci romperemo le gambe! — gridò il mozzo. —
Il signor Albani, che pareva in preda a una viva agitazione, aveva cacciato rapidamente una freccia nella cerbottana e si era steso presso l’orlo della piattaforma. Sembrava che aspettasse che il mostro formidabile apparisse, per lanciargli la freccia mortale.