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68 | Capitolo decimo |
Quella sostanza farinosa però non era ancora adoperabile, poichè si trovava mescolata a fibre vegetali che dovevano essere eliminate.
Quando il sole tramontò, possedevano già oltre cento chilogrammi di fecola. La impacchettarono nelle foglie e ritornarono alla capanna carichi come muli, ma contentissimi di possedere quella preziosa provvista che prometteva del pane sostanzioso, se non delizioso, come quello che si ottiene colla farina di frumento.
L’indomani s’affrettarono a fabbricare una specie di crivello con fibre di rotang e liberarono la fecola dalle fibre vegetali. Impazienti di assaggiare quel pane, fecero delle torte mescolando un po’ d’acqua marina, mancando di sale, e a mezzodì poterono finalmente gustare la loro farina.
Fu un successo completo. Il marinaio ed il mozzo divorarono parecchie focaccie, dichiarandole eccellenti. Quella fecola non era gustosa come la farina, ma ricordava un po’ quella della patata e possedeva soprattutto delle qualità assai nutrienti.
Fu decisa la costruzione d’un forno, per fare dei biscotti che potessero conservarsi. Il signor Albani non si trovò imbarazzato.
I gusci delle ostriche e di altre conchiglie, cucinati in un grande fuoco gli fornirono della calce ottima, il lido gli fornì la sabbia, e le rupi i sassi occorrenti. Due giorni dopo il forno funzionava a meraviglia ed i biscotti si accumulavano rapidamente in una piccola capanna costruita sotto quella aerea e che era stata destinata come magazzino.
Ma se il pane abbondava, scarseggiava la carne. Di frutta e di crostacei ne avevano divorati fin troppi e il bisogno di avere della selvaggina s’imponeva, come pure soffrivano la mancanza del sale, non avendone trovato in alcuna parte.
Fortunatamente il mare era a due passi e poteva darne in grande quantità, delle tonnellate se lo avessero voluto. Bastava scavare delle buche, riempirle d’acqua marina e lasciare che il sole s’incaricasse dell’evaporazione.