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46 Capitolo settimo

— Che un’altra tigre si avvicini? — chiese il marinaio.

— O qualche preda? — disse il veneziano. — Sarebbe la ben venuta.

— Per la tigre?

— E anche per noi, poichè ci leverebbe d’attorno questo incomodo vicino. —

Le grandi canne continuavano intanto ad agitarsi e le foglie a sussurrare, e la tigre diventava più attenta.

A un tratto una grossa ombra comparve sull’orlo della piantagione e dopo una breve esitazione si diresse verso il fuoco, come se fosse attratta da una irresistibile curiosità.

L’oscurità era troppo profonda perchè si potesse ben distinguerla, ma le sue forme rassomigliavano a quelle d’un tapiro o di un babirussa, animali molto comuni nelle isole dell’Arcipelago Chino-Malese.

Quell’animale era già giunto a cento o centoventi passi, quando il marinaio disse: — Guardate la tigre! —

Il felino era strisciato rapidamente e senza far rumore, dietro ad una fila di cespugli e s’avanzava verso la preda con passo silenzioso, schiacciandosi, per così dire, contro terra.

D’improvviso si arrestò, si raccolse su sè stesso, poi s’innalzò descrivendo una lunga parabola e piombò, con precisione matematica, sul dorso dell’animale.

S’udì un grugnito acuto seguito dal grido gutturale e stridente della belva, poi si videro i due avversari dibattersi alcuni istanti, quindi cadere l’uno sull’altro.

— Morti entrambi? — chiesero il marinaio ed il mozzo, che avevano seguito con viva ansietà le fasi di quella lotta.

— No, — rispose Albani. — La tigre sta dissanguando la preda.

— Canaglia! — esclamò il marinaio. — Ah!... se avessi un fucile!...

— Eccola che si rialza, — disse il mozzo.

Infatti il formidabile felino, abbeveratosi del sangue caldo della vittima, erasi rialzato. Girò due o tre volte attorno alla preda, poi l’addentò per la nuca e malgrado fosse assai più