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44 Capitolo settimo

due giovani bambù lunghi due o tre metri, canne leggere bensì, ma d’una resistenza a tutta prova e che gl’indiani ed i giavanesi adoperano per fabbricare le aste delle loro picche.

— Ecco quanto mi occorre per avere una buona arma, superiore alla scure, — disse.

Afferrò una di quelle canne, la spogliò delle foglie, estrasse da una tasca una funicella ed in pochi istanti legò solidamente il suo coltello all’estremità di quell’asta.

Aveva appena terminato, quando vide uscire da una folta macchia un’ombra, la quale s’avanzava verso il fuoco con grande lentezza, mostrando due occhi che avevano dei bagliori verdastri. S’alzava, si abbassava fino a toccare col ventre la terra, poi s’arrestava come se fosse indecisa o fiutasse l’aria, poi si stirava come un gatto e agitava la sua lunga e sottile coda.

Pareva però che non avesse molta fretta di avvicinarsi al campo, tenuta forse in rispetto dal fuoco, il quale proiettava sulle piante vicine dei riflessi sanguigni.

— Una tigre o un grosso gatto selvatico? — si chiese il marinaio, le cui inquietudini aumentavano. — Diavolo! La cosa diventa seria e mi pare che valga la pena di tirare le gambe ai compagni. —

Scivolò rapidamente sotto la tenda e scosse vigorosamente Albani ed il mozzo, dicendo:

— Presto, uscite!... Un grave pericolo ci minaccia.

— Chi?... Che cosa succede? — chiese l’ex-uomo di mare, stropicciandosi vigorosamente gli occhi.

— Credo che si tratti d’una tigre, signore.

— Una tigre?... Usciamo! —

Quando si trovarono all’aperto, videro l’animale tranquillamente accovacciato a trenta passi dal fuoco.

Non era più possibile ingannarsi, vedendolo in piena luce: era una vera tigre; ma di razza malese, più tozza, più bassa di zampe e meno elegante di quelle reali del Bengala.

Quelle dell’Arcipelago della Sonda hanno il pelo più lungo