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I mostri dell’Oceano | 33 |
— Col tempo le rifarà.
— Cosa dite?... Torneranno a crescergli le braccia?...
— Sì, fra sette anni. Ma lasciamo andare il cefalopodo e cerchiamo di scalare questa costa. Vedo degli alberi lassù e promettono delle frutta, se non m’inganno.
— Siamo marinai, signore, e spero che ci riusciremo. —
Il sole spuntava allora, illuminando il mare e l’isola. Alzando gli occhi verso l’alta sponda, i naufraghi ormai distinguevano perfettamente degli alberi di mole enorme, coperti di folte e grandi foglie, in mezzo alle quali apparivano delle grosse frutta spinose, di forma un po’ allungata.
— Se non m’inganno sono durion, — disse il signor Emilio. — Sarà un po’ difficile far cadere quelle frutta, ma chissà che a terra ve ne siano. —
Si misero a osservare la rupe, ma alla base essa era così liscia, da non permettere la salita nemmeno a un gatto o ad una scimmia. Quattro metri più sopra però vi erano numerosi crepacci e radici e sterpi, i quali potevano offrire appigli per una scalata.
— Corpo d’un tre alberi sventrato! — esclamò il marinaio, che si rompeva inutilmente le unghie contro quella parete liscia e dura. — Che non si possa giungere lassù?
— Colla pazienza ci riusciremo, — disse il signor Emilio. — Dov’è il rottame?
— Si è arenato presso la caverna, — rispose il mozzo.
— Va’ a tagliare un paterazzo dell’albero. —
Il mozzo si recò presso la caverna e poco dopo ritornava tirando la lunga e grossa gomena incatramata.
— Formiamo ora una scala umana, — disse il veneziano. — Tu, Enrico, appoggiati alla rupe; io salgo sulle tue spalle e Piccolo Tonno sulle mie, portando con lui il paterazzo.
— Sarai poi capace di salire? — chiese il marinaio al mozzo.
— Mi basta cacciare un piede ed una mano in una di quelle fessure, — rispose Piccolo Tonno.