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24 | Capitolo quarto |
— E soffia da ponente, — disse il mozzo.
— Buono! — esclamò Albani. — Ci spingerà più rapidamente verso l’arcipelago delle Sulu.
— Un’idea, signore!
— Parla, Enrico.
— Ecco qui il pezzo del pennone di pappafico rotto dalla coda dello squalo.
— Ebbene, che cosa vuoi concludere?...
— Che non ci mancano nè funi, nè vele. Possiamo approfittare di questa brezza.
— È vero: affrettiamoci, amici. —
Si misero tutti tre al lavoro senza perdere tempo, sapendo per esperienza che in quei climi caldi le brezze notturne cessano, ordinariamente, col levar del sole.
Ritirarono il pennone spezzato che era stato trattenuto da una fune e lo rizzarono, cacciando una estremità fra le crocette le quali servivano, in certo modo, da morsa.
Assicuratolo con dei pezzi di paterazzi e di sartie, ritirarono dall’acqua la vela di gabbia e servendosi dell’alberetto come d’antenna, la spiegarono meglio che poterono, cercando di mantenere più larga che fosse possibile l’estremità inferiore.
La brezza, che soffiava regolarmente e abbastanza fresca, non tardò a gonfiarla e l’albero cominciò a filare verso l’est, lasciandosi dietro una leggera scia gorgogliante.
Non manteneva una linea dritta, come ben si può immaginare, e deviava di frequente per mancanza d’un timone o almeno d’un remo, ma pure guadagnava sempre e aiutava efficacemente l’azione della corrente.
I tre naufraghi, che tenevano le scotte allargate, già si rallegravano di quella corsa, quando videro riapparire improvvisamente lo squalo.
— Ancora lui! — esclamò il marinaio, tendendo le pugna. — Ma che non voglia più lasciarci, quel dannato mangiatore d’uomini?... Bisognerà sfondargli il cranio per fargli rinunciare a questa caccia accanita?