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20 | Capitolo terzo |
— Quale velocità credete abbia questa corrente?
— Forse un miglio e mezzo all’ora.
— Supponendo che l’Arcipelago fosse lontano trecento miglia, impiegheremmo?...
— Duecento ore, ossia otto giorni e otto ore.
— Ventre di pesce-cane!... — esclamò il marinaio. — Tanto da morire di fame con tutto comodo!...
— Se non di fame, per lo meno di sete, — disse il signor Emilio. — Col calore che regna su questo mare, non potremo resistere.
— E poi otto giorni senza chiudere occhio! — aggiunse Piccolo Tonno. — Temo di non dover più mai rivedere nè Ischia, nè Napoli.
— Nè io papà Merlotti, il taverniere di via Sottoripa, mio buon amico, — disse il marinaio. — Addio, Genova!...
— C’è tempo a morire, amici miei, — disse l’ex-uomo di mare. — È vero che questo mare è poco battuto dalle navi, ma possiamo venire raccolti da una di esse, oppure spinti verso qualche isola dell’Arcipelago. Ve ne sono parecchie lontane dal gruppo principale e chissà che qualcuna non ci sia vicina.
— Per ora non ne vedo, signore.
— Navighiamo da mezz’ora, Enrico. Aspetta domani mattina o posdomani.
— Ma non abbiamo nulla da porre sotto i denti, signore.
— In due o tre giorni non si muore.
— Ma il sonno? Resisteremo noi?
— Vi sono delle funi appese all’albero e anche dei pezzi di vela. Chi c’impedirà di fabbricare, alla meglio, un’amaca, di appenderla ai due pennoni o fra la crocetta e un’antenna?...
— È vero, — disse il mozzo.
— Zitto, — disse il marinaio.
— Che cos’hai udito? — chiese Albani.
Un tonfo si udì dietro l’albero. I tre naufraghi si volsero di comune accordo e videro una massa nerastra