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18 | Capitolo terzo |
potuto raccogliere del legname bastante per costruirci una zattera, e anche qualche cassa o qualche barile contenente dei viveri.
— Proviamo a chiamare, signore, — disse Ubaldo Piccolo Tonno. — Se qualche nostro compagno si è salvato, cercheremo di raggiungerlo, o lui cercherà di raggiungere noi.
— Proviamo, — disse Albani.
Tre tuonanti chiamate echeggiarono:
— Ohe!... Ohe!... Ohe!... —
Tesero gli orecchi ed ascoltarono con viva attenzione, ma nessuna voce rispose.
Ripeterono le chiamate con maggior vigore, ma invano. Solamente i gorgoglii dell’acqua e i soffi rauchi dello squalo, giunsero agli orecchi dei naufraghi.
— Sono tutti periti, — disse il marinaio. — Non siamo vivi che noi, ma perduti nell’immensità del mare e chissà a quale spaventevole sorte destinati.
— Non disperiamo, — disse il signor Albani. — Se Dio ci ha conservati in vita, non sarà certo per farci poi morire di fame e di sete o sotto i denti degli squali.
— Ma come siamo sfuggiti alla catastrofe?
— Perchè ci siamo gettati in mare prima che la nave scoppiasse.
— Voi, ma io no, signore, — disse Enrico. — Io stavo per varcare la murata di prua, quando mi sono sentito proiettare in aria in mezzo a un nuvolone di fumo e poi piombare in mezzo alle onde, mentre intorno a me cadevano sibilando rottami d’ogni specie. Come sono tornato a galla ancora vivo? Io non lo so.
— È stato un miracolo che i rottami non ti abbiano ucciso.
— Lo credo, signore. Ed ora, che cosa faremo? Riusciremo a salvarci, o siamo serbati ad una lenta e straziante agonia? —
Il signor Albani non rispose: cogli sguardi fissi distrattamente sulla luna, che seguiva il suo corso in mezzo a un cielo senza nubi, pareva che meditasse profondamente.