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218 Capitolo trentunesimo

loro isola e riconoscere con un solo sguardo il loro nuovo rifugio.

Il signor Albani non si era ingannato. Quell’isolotto, che sorgeva all’estremità di una lunga fila di frangenti e di banchi, non poteva offrire loro alcuna risorsa, nè fornire in modo alcuno, i mezzi per far ritorno alla loro capanna.

Pareva che fosse l’estremità d’un antico vulcano, sollevatosi in causa di qualche cataclisma sottomarino, poichè i suoi fianchi erano coperti di vecchie lave, di lapilli e di incrostazioni marine. Si vedevano soprattutto, anche verso la cima, numerosi gusci di conchiglie e pezzi di quel corallo, così comune in quei mari, dove i piccoli infusorii costruiscono meravigliose scogliere che poi finiscono col diventare delle vere isole.

Quello scoglio aveva però dimensioni ragguardevoli, poichè poteva avere una circonferenza di oltre mille metri. Non era tutto dirupato: mentre le sue coste meridionali scendevano quasi a picco, quelle settentrionali e occidentali calavano dolcemente e alla base si spianavano formando una vera spiaggia sabbiosa.

Nessun albero cresceva fra quelle rocce; solamente pochi magri cespugli e delle piante sarmentose si vedevano crescere in fondo ai burroncelli, alimentate dalle piogge che dovevano raccogliersi in quelle bassure.

Gli animali dovevano mancare, ma non così gli uccelli, poichè su certe rupi tagliate a picco sul mare, si udivano di quando in quando dei cicalecci allegri.

Probabilmente dovevano essere rondini marine della specie delle salangane, volatili assai comuni in tutte le isole di quegli arcipelaghi e sopratutto in quelle deserte o poco abitate, non amando di essere disturbate.

— E così, signore? — chiese Enrico al veneziano, il quale continuava a osservare l’isolotto. — Credete che si possa riguadagnare la nostra isola?

— Temo, amico mio, che questa avventura inaspettata ci faccia passare dei brutti momenti, — rispose Albani. —