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210 Capitolo trentesimo

Una terribile commozione scompose i lineamenti del bravo marinaio, mentre un grido di disperazione gli erompeva dal petto.

— Perduto?... Ucciso forse?... — esclamò con voce rotta. — Marino... Bisogna cercarlo! —

I due marinai, senza badare al pericolo, avevano raggiunta la base dello scoglio e si erano messi a correre lungo i frangenti, lottando disperatamente contro i marosi che minacciavano di travolgerli e di trascinarli al largo.

Parevano impazziti pel dolore. Si cacciavano fra i banchi e le rocce che circondavano la rupe, chiamando ad alta voce il loro disgraziato compagno; cadevano sotto l’assalto brutale, irresistibile, delle acque, ma si risollevavano, e senza badare alle contusioni, alle punte aguzze che rovinavano i loro piedi, continuavano le loro ricerche correndo or qua or là e raddoppiando le chiamate.

Ohimè! Nessuna voce umana rispondeva: solamente i fischi del vento e i muggiti del mare in tempesta si udivano attorno allo scoglio solitario.

Dopo un’ora di sforzi sovrumani, pesti, sanguinolenti, affranti, scoraggiati, si videro costretti a rinunciare a quella lotta che poteva tornare a loro fatale. Marino dovette trascinare Enrico sulla spiaggia, poichè il bravo marinaio stava per lasciarsi portar via dalle onde, non volendo troncare le ricerche, quantunque non fosse più in grado di reggersi in piedi.

— Vieni, camerata, — disse il maltese, spingendolo sotto una rupe che poteva ripararli dal vento e dalla pioggia che cominciava a cadere a torrenti.

— Bisogna cercarlo ancora, Marino, — singhiozzò il marinaio. — No, non può essere morto.

— Lo cercheremo più tardi. Tu non hai più forze, ed io non posso tenermi in piedi.

— Credi che sia morto?...

— Non disperiamo, Enrico. Le onde possono averlo spinto lontano da qui, sulla sponda di levante o meridionale.