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196 | Capitolo ventottesimo |
Salirono la sponda e s’internarono nella macchia, procedendo con precauzione e senza far rumore. Fatti pochi passi, si trovarono dinanzi ad una casupola col tetto semi-sfondato, costruita con rami d’albero e cinta da una piccola palizzata di bambù.
All’intorno si vedevano delle penne di uccelli, dei tizzoni semi-spenti, dei pezzi di bottiglie e degli stracci. Un odore acre, insopportabile, usciva da quella piccola costruzione.
— Vi è qualche cosa che imputridisce là dentro, — disse il marinaio, arrestandosi.
— È odore di carne corrotta, — disse il veneziano, impallidendo. — Che i due naufraghi siano morti?..
— O che si siano uccisi?... È odore di morto.
— Andiamo innanzi, Enrico.
— Proviamo a chiamarli, prima. Ohe!... Marino!... Harry!... —
Nessuno rispose alla chiamata. Invece uscirono parecchi strani animaletti somiglianti ai ricci, ma più grandi, col corpo irto di aculei, ma col muso lungo e sottile, una bocca piccolissima munita di certe lamine cornee e le zampe armate di artigli.
— Cosa sono? — chiese il marinaio, balzando indietro.
— Echidnei, — rispose il veneziano. — Sono i più strani animali che esistano, e si ignora ancora il loro modo di generare, essendo conformati più come uccelli, che come gli animali.
— Sono pericolosi?...
— No, poichè non possono nemmeno mordere. Andiamo avanti, Enrico. —
Malgrado l’orribile fetore che usciva, i due Robinson entrarono nella catapecchia, ma subito si arrestarono, soffocando un grido d’orrore.
Colà, disteso su un mucchio di foglie secche, stava un uomo coi lineamenti spaventosamente alterati, magro come un fakiro indiano, col petto ossuto semi-nudo, le mani contratte convulsamente, e già in piena putrefazione.
Intorno a lui vi erano un fucile, una scatola che doveva