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Il varo della «Roma» 185

— Che cosa?...

— Guardate laggiù, presso quella scogliera, — disse Albani, che si era improvvisamente alzato. — Non scorgete qualche cosa, che le onde trastullano?

— Sì, — dissero i due marinai. — Si direbbe un rottame.

— Governa laggiù, Piccolo Tonno, — disse il veneziano. —

La scialuppa si scostò dalla spiaggia dirigendosi verso una massa nerastra, che cozzava contro una fila di scoglietti a fior d’acqua.

Pochi minuti dopo la raggiungeva. Era un rottame, un pezzo di poppa d’una piccola nave, dipinta di nero, sul cui fasciame esterno si scorgevano delle lettere biancastre, che ormai l’acqua salata aveva corroso e reso indecifrabili.

— Mille terremoti! — esclamò il marinaio. — O io m’inganno assai o questa è la poppa del tia-kau-ting dei pirati.

— Lo credo anch’io, — disse Albani. — Mi ricordo di aver scorto sulla sua poppa delle lettere e dei fregi bianchi.

— Dio ha punito quelle canaglie, signore. Il mare ha inghiottito tutti.

— Lo avevo previsto. Era impossibile che con una nave così piccola potessero affrontare quel formidabile uragano. Ora almeno potremo intraprendere il nostro viaggio attorno all’isola, senza temere un improvviso loro ritorno. —

Essendo il sole prossimo al tramonto e temendo che il vento cambiasse direzione, virarono di bordo e un’ora dopo ritornavano alla piccola cala.

— Siete contenti, amici? — chiese il veneziano, sbarcando.

— Così contento, signore, che io non lascerò più quest’isola, — disse il marinaio.

— E nemmeno io, — disse Piccolo Tonno. — Rimarrò qui per sempre, dovessero venire dieci navi a prendermi. Che cosa ci manca?... Siamo sbarcati senza un tozzo di pane, ed ora siamo più felici di un re. Che cosa potremmo desiderare di più?...

— È vero, signore; e tutto ciò dobbiamo alla vostra attività e alla vostra scienza, — aggiunse Enrico.