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142 | Capitolo ventunesimo |
Dopo sette anni si possono tagliare e allora dànno ognuno circa centocinquanta chilogrammi d’una fecola biancastra, simile alla farina che produce il frumento.
Quella fecola è racchiusa nel tronco, fra gl’interstizii di una densa rete di fibre. Tagliato l’albero in varii pezzi, con una mazza si fa uscire la polpa, la si passa allo staccio con un po’ d’acqua e la s’impasta formando dei pani.
Leggermente torrefatta, può servire come minestra ed è eccellente.
Anche il succo che esce dal tronco inciso e che scola abbondantemente è buono, poichè offre una bevanda zuccherina, gratissima e salubre, ma ha l’inconveniente di fermentare rapidamente.
I Robinson fecero ampie provviste di quella fecola e una parte la abbrustolirono per prepararsi delle buone minestre. Il forno in quei giorni, sotto la vigilanza del mozzo trasformato in panettiere, non stette un istante in riposo.
Quando i magazzini furono pieni, anche il veneziano ed il marinaio si misero al lavoro, fabbricando candele colla cera delle mandorle e trasformando l’acqua zuccherata e la polpa tenera dei cocchi in vino bianco ed in acquavite, che poi racchiudevano entro recipienti d’argilla cotta, perchè si conservassero a lungo.
Anche dell’olio ricavarono e poterono finalmente permettersi il lusso di mangiare qualche piatto di cipolline, essendo già nate nel campicello. Quell’olio però non durava più di due o tre giorni, poichè diventava rancido, assumendo un sapore così disgustoso, che i loro palati non riuscivano a tollerare.
Trovarono però il modo di surrogarlo con altro molto migliore e che poteva conservarsi lungamente. Essendo comparse sulla spiaggia delle grosse testuggini marine, colà radunatesi per deporre le uova, un mattino riuscirono a sorprenderne parecchie su di un banco, mentre stavano scavando le buche che dovevano servire di nido.
Le più grosse furono tosto uccise e il loro grasso, fuso al fuoco,