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102 | Capitolo quindicesimo |
Il povero mozzo nel vedersi dinanzi quell’animale, che pareva pronto a scagliarsi su di lui e mettere alla prova i tremendi artigli, impallidì orribilmente e s’irrigidì contro l’albero, mormorando con un fiol di voce:
— Sono morto! —
Aveva riconosciuto in quella formidabile avversaria una tigre.
Gettò all’intorno uno sguardo smarrito: il signor Albani russava tranquillo e fidente sotto la piccola tettoia ed il fuoco stava per ispegnersi, lanciando gli ultimi sprazzi di luce come un lumicino moribondo.
Si guardò ai piedi sperando di aver vicino la cerbottana, ma il fusto cilindrico gli era caduto dalle ginocchia, era rotolato pel pendio ed era andato ad arrestarsi a’ piedi d’un sontar, a circa dieci metri di distanza.
Il disgraziato ragazzo si sentì rizzare i capelli e gli parve di sentire sulle membra i denti terribili della fiera.
— Sono morto, — ripetè, rabbrividendo fino in fondo all’anima.
E poteva ben considerarsi spacciato, poichè al primo movimento che avesse osato fare per riprendere la cerbottana o al primo grido che avesse lanciato per svegliare il veneziano, la tigre non avrebbe indugiato ad assalirlo.
Girò lentamente la testa e guardò la fiera. Stava accovacciata al medesimo posto, ma pareva non avesse fretta di assalire. Si stirava come un gatto che ha fatto una buona dormita, ondeggiava mollemente la coda, si lisciava il pelo del petto e dei fianchi con civetteria e sembrava non facesse alcun caso della futura vittima.
Ad un tratto però parve che concentrasse la sua attenzione sulla cerbottana che stava ai piedi del borasso, la cui estremità era munita del coltello del mozzo. Quella lama, che un raggio di luna faceva scintillare come uno specchio da due soldi, aveva certamente destato la sua curiosità.
Si diresse verso l’albero con passo silenzioso ma con una certa diffidenza, volgendo di quando in quando la testa verso