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Un terribile quarto d’ora 101

bastoni, che poi ricoprirono con una mezza dozzina di foglie d’arecche, lunghe tre metri e larghe uno.

Rosicchiarono un biscotto, accesero il fuoco per tenere lontane le fiere, poi Albani si coricò sotto quella tettoia improvvisata, mentre il mozzo montava il primo quarto di guardia, tenendosi accanto la cerbottana nella quale aveva prima introdotto una freccia avvelenata. Tutto era tranquillo sulla cima della montagna: non si udiva che il lieve sussurrìo delle fronde agitate dal venticello notturno.

Nè le scimmie, nè i falchi, nè le aquile si udivano, però il mozzo non osava chiudere gli occhi, quantunque il sonno gli pesasse sulle palpebre. Per vincerlo si alzava di frequente e faceva il giro della tettoia, scrutando con grande attenzione la tenebrosa foresta che scompariva giù pei fianchi della montagna.

Di quando in quando poi si spingeva verso il margine della boscaglia, e tendeva gli orecchi, sperando di udire, nei piani inferiori, echeggiare la voce lontana del marinaio, ma senza risultato. Senza dubbio il genovese dormiva tranquillamente sotto la vigilanza dello Sciancatello, sognando forni pieni di ciambelle.

Il sonno però lo assaliva con maggior frequenza e per quanti sforzi facesse, le palpebre già fin troppo grevi, gli si abbassavano.

Si era seduto a pochi passi dal fuoco, contro il tronco d’un albero semi-divorato dal tarlo e che gli aveva offerto una specie di seggiola, fischiando fra i denti una barcarola. Lottava ancora contro il sonno, ma erano gli ultimi sforzi.

Finalmente non seppe più resistere e involontariamente chiuse gli occhi, sognando la sua lontana isola natìa.

Quanto dormì?... Non potè mai saperlo, ma una brutta sorpresa lo aspettava al suo risvegliarsi. Là, a quindici passi, un animale grosso, col pelame giallastro rigato di nero, colla testa somigliante a quella dei gatti ma molto più grossa, stava sdraiato al suolo, guardandolo con due occhi dai riflessi verdastri, ma che tradivano un’ardente bramosìa.