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diceva che colui non sapeva stare senza l’aiuto di don Michele. Ora la moglie di Cinghialenta veniva di tanto in tanto a fare il diavolo davanti all’osteria, coi pugni sui fianchi, strillando che la Santuzza le rubava il marito, e perciò quando costui tornava a casa ella si buscava delle frustate colle redini della cavezza, dopo che Cinghialenta aveva venduto il mulo, e non sapeva più che farsene delle redini, che la notte i vicini non potevano chiuder occhio dalle grida.
— Questo non va bene! — diceva don Silvestro, — la cavezza è fatta per il mulo. Compare Cinghialenta è un uomo grossolano. — Egli andava a dire queste cose quando c’era comare Venera la Zuppidda, la quale dopo che la leva si portava via i giovanotti del paese, aveva finito per addomesticarsi un po’ con lui.
— Ognuno sa gli affari di casa sua, — rispondeva la Zuppidda; — se lo dite per ciò che vanno predicando le male lingue, che io metto le mani addosso a mio marito, vi rispondo che non sapete un corno, tuttochè sapete di lettera. Del resto ognuno in casa sua fa quel che gli pare e piace. Il padrone è mio marito.
— Tu lasciali dire, — rispondeva suo marito. — Poi lo sanno che se vengono a toccarmi il naso ne faccio tonnina!
La Zuppidda adesso predicava che il capo della casa era suo marito, ed egli era il padrone di maritare la Barbara con chi gli piaceva, e se voleva darla a don Silvestro voleva dire che gliela aveva promessa, e aveva chinato il capo; e quando suo