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retto, mentre il presidente, col robone nero e la tovaglia sotto il mento, gli spifferava tutte le birbonate che aveva fatto, ed erano scritte senza che vi mancasse una parola sulla carta. Don Michele era là, giallo anche lui, seduto sulla sedia, di faccia ai giudei che sbadigliavano e si facevano vento col fazzoletto. L’avvocato intanto chiacchierava sottovoce col suo vicino, come se non fosse stato fatto suo.
— Per stavolta, — mormorava la Zuppidda all’orecchio della vicina, udendo tutte quelle porcherie che ’Ntoni aveva fatto, — la galera non gliela levano di certo.
C’era anche la Santuzza, per dire alla giustizia dove era stato ’Ntoni e dove aveva passata quella sera. — Guardate cosa vanno a domandare alla Santuzza, — borbottava la Zuppidda. — Son curiosa di sentire cosa risponderà, per non spiattellare alla giustizia tutti i fatti suoi.
— Ma da noi che vogliono sapere? — domandò comare Grazia.
— Vogliono sapere se è vero che la Lia se la intendeva con don Michele, e che suo fratello ’Ntoni abbia voluto ammazzarlo per tagliarsi le corna; me l’ha detto l’avvocato.
— Che vi venga il colèra! — soffiò loro lo speziale facendo gli occhiacci. — Volete che andiamo tutti in galera? Sappiate che colla giustizia bisogna dir sempre di no, e che noi non sappiamo niente.
Comare Venera si rincantucciò nella mantellina, ma seguitò a borbottare. — Questa è la verità. Li ho visti io cogli occhi miei, e lo sa tutto il paese.