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da lontano domandavano come fosse accaduta la disgrazia; chè comare Maruzza c’era capitata una delle prime. E quando passava don Michele o qualcun altro di quelli che mangiavano il pane del re, e portavano il berretto col gallone, li guardavano cogli occhi lustri, e correvano a chiudersi in casa. Nel paese era un gran squallore, e per le strade non si vedevano nemmeno le galline; persino mastro Cirino non si faceva più vivo, e lasciava stare di suonare mezzogiorno e l’avemaria, chè mangiava il pane del comune anche lui, per quei dodici tarì al mese che gli davano di bidello comunale, e temeva che gli facessero la festa come tirapiedi del Governo.

Adesso don Michele era padrone della strada, dacchè Pizzuto, don Silvestro, e tutti gli altri erano andati a rintanarsi come conigli, e non c’era che lui a passeggiare davanti all’uscio chiuso della Zuppidda. Peccato che lo vedessero soltanto i Malavoglia, i quali adesso non avevano più nulla da perdere, e perciò se ne stavano a vedere chi passava, seduti sulla soglia, immobili, e col mento in mano. Don Michele per non perdere la sua gita, guardava la Sant’Agata, ora che tutti gli altri usci erano chiusi; e lo faceva anche per far vedere a quel ragazzaccio di ’Ntoni che lui non aveva paura di nessuno al mondo. E poi la Mena, così pallida, pareva tutta Sant’Agata davvero; e la sorellina, con quel fazzoletto nero, cominciava a farsi una bella ragazzina anche lei.

Alla povera Mena pareva che tutt’a un tratto le fossero caduti venti anni sulla schiena. Adesso faceva colla Lia come la Longa aveva fatto con lei;

Verga. I Malavoglia. 15