Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 163 — |
— Io lo sapeva che dovevate dirmi così quando ci hanno preso la casa, ora che tutti ci voltano le spalle.
— Sentite, compare ’Ntoni, mia madre può venire da un momento all’altro, e non è bene che mi trovi qui con voi.
— Sì, sì, è vero; ora che ci hanno tolto la casa del nespolo non è giusto. — Egli aveva il cuore grosso, il povero ’Ntoni, e non voleva lasciarla così. Ma ella doveva andare a riempir la brocca alla fontana, e gli disse addio, correndo lesta lesta, e dimenando i fianchi con bel garbo — chè Zuppidda la chiamavano perchè il nonno di suo padre s’era rotta la gamba in uno scontro di carri alla festa di Trecastagni, ma Barbara le sue brave gambe ce le aveva tutte e due.
— Addio, comare Barbara! — rispose il poveraccio, e così ci mise una pietra su quel che era stato, e se ne tornò a remare come un galeotto, che già quella era una vera galera, dal lunedì al sabato, ed egli era stanco di rompersi l’anima per niente, perchè quando non si ha nulla è inutile arrabbattarsi da mattina a sera, e non trovate un cane che vi voglia, per questo egli ne aveva le tasche piene di quella vita; preferiva piuttosto di non far niente davvero, e starsene in letto a fare il malato, come quando era seccato del servizio militare, e il nonno poi non stava a cercare il pelo nell’uovo come il dottore della fregata. — Che hai? — gli domandava.
— Nulla ho. Ho che sono un povero diavolo.
— E che vuoi farci se sei un povero diavolo? Bisogna vivere come siamo nati.