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fumo. In terra è tutt’altra cosa. Un bersagliere che tornava con noi a Messina ci diceva che non si può stare al pinf panf delle fucilate senza sentirsi pizzicar le gambe dalla voglia di buttarsi avanti a testa bassa. Ma i bersaglieri non sono marinari, e non sanno come si fa a stare nel sartiame col piede fermo sulla corda e la mano sicura al grilletto, malgrado il rollìo del bastimento, e mentre i compagni vi fioccano d’attorno come pere fradicie.

— Per la madonna! — esclamò Rocco Spatu. — Avrei voluto esserci anch’io a far quattro pugni!

Tutti gli altri stavano ad ascoltare con tanto d’occhi aperti. L’altro giovanotto poi raccontò pure in qual modo era saltata in aria la Palestro, — la quale ardeva come una catasta di legna, quando ci passò vicino, e le fiamme salivano alte sino alla penna di trinchetto. Tutti al loro posto però, quei ragazzi, nelle batterie o sul bastingaggio. Il nostro comandante domandò se avevano bisogno di nulla. — No, grazie tante, — risposero. Poi passò a babordo e non si vide più.

— Questa di morire arrostito non mi piacerebbe, — conchiuse Spatu; — ma pei pugni ci sto. — E la Santuzza come tornò all’osteria gli disse: — Chiamateli qua, quei poveretti, che devono aver sete, dopo tanta strada che hanno fatto, e ci vuole un bicchiere di vino schietto. Quel Pizzuto avvelena la gente colla sua erbabianca, e non va a confessarsene. Certuni la coscienza l’hanno dietro le spalle, poveretti loro!

— A me mi sembrano tanti pazzi, costoro! — diceva padron Cipolla soffiandosi il naso adagio adagio.