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Cristo che c’è nel calice della messa, e par roba rubata, che tutti fanno a chi piglia piglia, compare Alfio, la Vespa e i Malavoglia. Ora incomincio la lite e mi piglio la casa. —
— Voi siete il padrone. Se dite di far la lite la faccio subito.
— Ancora no. Aspettiamo a Pasqua; «l’uomo per la parola e il bue per le corna»; ma voglio esser pagato sino all’ultimo centesimo, e non darò più retta a nessuno per accordare dilazione.
La Pasqua infatti era vicina. Le colline erano tornate a vestirsi di verde, e i fichidindia erano di nuovo in fiore. Le ragazze avevano seminato il basilico alla finestra, e ci si venivano a posare le farfalle bianche; fin le povere ginestre della sciara avevano il loro fiorellino pallido. La mattina, sui tetti, fumavano le tegole verdi e gialle, e i passeri vi facevano gazzarra sino al tramonto.
Anche la casa del nespolo sembrava avesse un’aria di festa; il cortile era spazzato, gli arnesi in bell’ordine lungo il muricciuolo e appesi ai piuoli, l’orto tutto verde di cavoli e di lattughe, e la camera aperta e piena di sole che sembrava contenta anch’essa, e ogni cosa diceva che la Pasqua si avvicinava. I vecchi si mettevano sull’uscio verso mezzogiorno, e le ragazze cantavano al lavatoio. I carri tornavano a passare nella notte, e la sera si udiva un’altra volta il brusìo della gente che chiacchierava nella stradicciuola.
— Comare Mena la fanno sposa, — si diceva. — Sua madre ha tutta la roba del corredo per le mani.
Verga. I Malavoglia. | 9 |