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Vanni Pizzuto, Rocco Spatu, e compare Cinghialenta. Vanni Pizzuto s’è messo ad andare senza scarpe, per non essere conosciuto; ma io lo riconosco egualmente, che striscia sempre i piedi per terra, e fa levar la polvere come quando passano le pecore.

— A voi che ve ne importa? — gli diceva sua figlia, appena don Silvestro se ne andava. — Questo non sono affari nostri. L’osteria è come un porto di mare, chi va e chi viene, e bisogna essere amici con tutti, e fedeli con nessuno; per questo l’anima l’abbiamo ciascuno la sua, e ognuno deve badare ai suoi interessi, e non fare giudizi temerari contro il prossimo. Compare Cinghialenta e Spatu spendono del denaro in casa nostra. Non dico di Pizzuto che vende l’erbabianca e cerca di levarci gli avventori.

Don Silvestro poi andava a fermarsi dallo speziale, il quale gli piantava la barba in faccia, e gli diceva che era tempo di finirla, e buttar tutto a gambe in aria, e far casa nuova.

— Volete scommettere che questa volta va a finir male? — ribatteva don Silvestro, mettendo due dita nel taschino del farsetto per cavar fuori il dodici tarì nuovo. — Non c’è tasse che bastano, e un giorno o l’altro bisognerà finirla davvero. S’ha a mutar registro con Baco da seta che si lascia metter la gonnella dalla figlia, e il sindaco lo fa lei; — a massaro Filippo poi non gliene importava un cavolo, e padron Cipolla, aveva la superbia di non voler fare il sindaco neanche se l’accoppavano. — Tutti una manica di borbonici della consorteria; dei minchioni che oggi dicono bianco e domani nero, e l’ultimo che parla ha