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dal buco che ci avevano fatto, fumando e strepitando come avessero il diavolo in corpo. — Ecco qua! — conchiuse padron Fortunato: — la ferrovia da una parte e i vapori dall’altra. A Trezza non ci si può più vivere, in fede mia!
Nel villaggio successe una casa del diavolo quando volevano mettere il dazio sulla pece. La Zuppidda, colla schiuma alla bocca, salì sul ballatoio, e si mise a predicare che era un’altra bricconata di don Silvestro, il quale voleva rovinare il paese, perchè non l’avevano voluto per marito: non lo volevano nemmeno per compagno alla processione, quel cristiano, nè lei nè sua figlia! Comare Venera, quando parlava del marito che doveva prendere sua figlia, pareva che la sposa fosse lei. Mastro Turi avrebbe chiuso bottega, diceva, ma voleva vedere poi come avrebbe fatto la gente a mettere le barche in mare, che si sarebbero mangiati per pane gli uni cogli altri. Allora le comari si affacciarono sull’uscio, colle conocchie in mano a sbraitare che volevano ammazzarli tutti, quelli delle tasse, e volevano dar fuoco alle loro cartacce, e alla casa dove le tenevano. Gli uomini, come tornavano dal mare, lasciavano gli arnesi ad asciugare, e stavano a guardare dalla finestra la rivoluzione che facevano le mogli.
— Tutto perchè è tornato ’Ntoni di padron ’Ntoni, — seguitava comare Venera, — ed è sempre là, dietro le gonnelle di mia figlia. — Ora gli danno noia le corna, a don Silvestro. Infine se non lo vogliamo, cosa pretende? Mia figlia è roba mia, e posso darla a chi mi pare e piace. Gli ho detto di no chiaro