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Già obticeva il facondo et infiammato Poliphilo dal suo dolce et peracceptissimo narrato cum amenissime et dulcicule parolette. Et quella suavissima bucca l’animo mio demulceva. Et capta et circumobsessa dalla sua melliflua lingua, in me non sentiva l’alma, ma tra li rosati labri transmigrata delitiosamente godere experiva. Gli cui sembianti pienamente agli ochii mei avidissimi satisfacevano, più grato che non se offeritte alla scelerata Sthenoboea il figlio del re di Ephyra, et tutta consentievola ligata, et alle sue emerite petitione debitamente paratissima. Per la quale summa dolcecia per me universalmente circumfusa me constringeva, da superfluo amore già invasa adimpire. Et dalla horamai non simulata pietate che di praesente di esso havea tutta commota a satisfare. Non essendo il core mio facto della sua miserrima vita oblivioso, in me sì rabidamente accesi, che io più non valeva unoquantulo, la importuna et vehemente fiamma celare, né supprimere. Il perché debitamente opportuno sarebbe stato (si io per tale via et Itione, non gli havesse exito concesso) sencia dubio di crepare. Et interrompendo della sacrificatrice la risposta, io imprima imperterrita et incontinente, dedi loco hiatissimo, alle volante face mansuetissima. Et per tale modo all’amante Poliphilo infiammata gli dissi. D ii