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et adure. Transcende penetrando gli solidissimi cieli, et d’indi sencia diminutione alcuna la profunditate dill’abysso, foco di mirabile natura. Al quale la liquante Thetys, né l’antico patre Oceano. Né il tridentigero Neptuno poté unquancho resistere. Quale foco è? Che gli mortali in quello summa cum dolcecia morendo se nutriscono, et viveno. Ancora magiore miracolo mirava deiecto in stupore. Come in quella fiocata neve dil delitioso pecto di Polia sencia contrasto ardesse? et rose purpurante germinasse? Cogitava affectuosamente come lui ancora ardesse, in quelli lilii candidissimi repleti et superafluenti di suchioso et lacteo humore? Non me sentiva etiam habile di discutere, come se infiammava sì acremente in quelle micante rose pullulante tra hiberne pruine dil rigente capricorno? Ritrovavame similmente ignaro, in che modo il spirabile Eulo negli festevoli ochii dilla callima Polia, cum tanto impulso di solicitare provocando quel foco tanto infiammabile? che tanto cum incendio gli radii leonini dilla classe gaditana, ad cremare quella dil Re Theron non procedevano, quanto dagli ochii sui uribili nel mio core irradiavano, inscio più et amente per quale maniera Pyragmon et gli compagni haveano fabricato in quelli la sua sì fulta et domestica officina a fulgurare? Ma supra tute cose questo excedeva, che io per alcuna solerte via non poteva investigare. Cum quale virtute tabescente colliso, mortificato, et dil tuto prosternato ad tanti improbi insulti, et crebre pugne dimicante repugnava? Cum il fulguricio core captivo et strictamente revincto. Intorniato da hostile piacere et circunvallato di accense et gratiose fiamme. Le quale (contra il suo proprio ome) di non potere, quel pungiente senticeto, et quel asperrimo, et imbricato cardeto conflagrare, nel core mio angulatamente impliciti, et da quelli placidissimi ochii dil sancto thesoro dil magno Cupidine fidi dispensatori diffusamente disseminati. O dulcissimo volucre (voltato ad esso idio poscia diceva) come niduli suavemente ne l’alma mia? O perameni (poscia ad gli ochii stelliferi di Polia diceva) O dulcissimi carnifici, come dil mio tristo core haveti saputo, una tanto constipata et confertissima pharetra, ad gli divini fianchi di Amore componere et cingiere? Niente dimeno sempre mai più gratiosi vi opto, et caldamente desidero, molto più et sencia comparatione, che non desiderava in tante noxie erumne, et supreme, et mortale fatiche lo auriculato Lutio le vermiglie rose, et più grati et opportuni che alla infoelice Psyche il socorso dilla granigera formicha, et il monito arundineo, et lo adiuvamento aquilare, et il punctulo innoxio dilla sagitta di Cupidine. Per le quale tute cose, non poteva però rivocare l’ardente alma fora dille delicati brachii et voluptuosi amplexi dilla mia calliplocama Polia, perché gli mei insaciabili concepti, ivi egli havevano ferma et aeternalmente incarcerata, et proscripta,