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In questo loco dunque sopra le fresche et florigere herbule se exponessemo laetamente a sedere. Cusì stante insaciabile cum gli ochii vultispici contemplava sutilmente in uno solo perfecto, et intemerato corpusculo tanta convenientia, et accumulatione di bellitudine obiecto sencia dubio renuente di non vedere cosa gratiosa, più oltra gli ochii mei, né di tanto contento, dove di novelli et repululanti concepti il mio ardente core cum tacito gaudio refocilando et alquanto le vulgare et commune isciochezze deposite, intelligibile più effecto considerai, et inseme il serenissimo celo, il salutare et mitissimo aire, il delectevole sito, la deliciosa patria, le ornate virdure, gli piacevoli, et temprati colli ornati di opaci nemoruli, il clemente tempo et aure pure, et il venusto et amoeno loco, dignificato dagli fiumi defluenti per la nemorosa convalle irrigui, apresso gli curvi colli, alla dextra et leva parte mollemente discurrenti al proximo mare praecipitabondi, agro saluberrimo et di gramine periucundo, referto di multiplici arbori canoro di concento di avicule. Ceda qui qui dunque il thessalico fiume et agro. Et quivi inseme cusì sedendo tra gli vernanti, et redolenti fiori et rose, in questa coeleste effigie cum tanto dilecto gli ochii hianti occupati fixamente teniva, et ad sì bella et rara factura, et diva imagine cum tuti gli sensi despico deditissimo, et applicato, et in me più piacevole resultando gli calorati impeti vexarii negli quali l’alma da dolcecia liquefacta, insano io stava, et tuto anxio, proiecto tuto et curioso ad considerare mirabondo, per quale modo et ragione quel liquore purpurante, al tacto delle pretiose carne dilla tuberula rasseta dilla mano rimanendo purissimo lacte, per alquanto tracto, al suo loco non ritornasse. Non meno cum quale artificio in questo venustissimo corpo la maestra natura particularmente dispensato havesse et suffarcinatamente disseminato tuta la fragrantia arabica. Et come ancora industriosamente nel suo stellante fronte di fili d’oro concinamente pampinulato havesse infixo la parte più bella dil cielo, overo Heraclea splendicante. Daposcia ad gli decori et exili pedi lo intuito convertendo, mirai ad quelli, gli vermigli calciamenti violentemente tirati, et sopra il pectine eburneo lunatamente buccati et sinuati di Phytontea apertione, cum amsulete d’oro, et cum cordicelle di cyanea seta invinculati, et strictamente revincti aptissimi instrumenti de intercalare la vita, et excessivamente di cruciare più l’infiamato core. Poscia illico ritornava il lascivo risguardo alla drita gula di orientale perle in circinao baccata, non intendendo di l’una et di l’altra albentia la vera dinstinctione, disubito descendeva al micante pecto, et delitioso sino, ove pululavano dui rotondi pomuli al vestito resistenti et obstinatamente oppugnaci né tali sencia fallo nel pomario dille Hesperide, Hercule furtivamente racolse, né Pomona tali vedi unque nel suo pomerio, quali questi più bianchissimi nel rosaceo pecto stavano immoti affixi, che la flocata neve, et lucida, p iiii