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Sta pur tu, Filottete, empio e restio
ai greci, al regno e contro me qual angue;
porgi senza fin vóti al capo mio,
brama avermi prigion, beverini il sangue,
che a ritrovarti ne verrò sol io
per addur meco il corpo tuo che langue,
ed arò in man, se il pensier mio non falla,
i dardi tuoi, come ebbi Eleno e Palla,
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senza cui, prender Troia il ciel negava.
Ov’è l’estrema forza, ov’è quel vanto
che si gran cavalier oggi si dava?

E’ non ha piú di me fatto né tanto.

Perché rimaner egli e Ulisse andava
per le guardie notturne e in ogni canto
cercar Troia? e rapir in mezzo l’alvo
de la ròcca Minerva e tornar salvo?
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Altramente di toro in braccio invano
sette ampie terga porteria costui:
allor vi posi il superb’Ilio in mano,
allora porta a la vittoria fui.

Cessa col ciglio e co’ le labbia insano
mostrar Diomede: e’ vi fu ancóra lui ;
né tu sol fosti a mille navi scampo;
io meco ebbi uno e tu i miglior del campo.
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Quasi non fosse a lor chiaro ed aperto
l’uom gagliardo del saggio esser minore,
chiederian essi ’l bel trofeo per merto,
ché non han men di te forza e valore;
ma cedon tutti al mio consiglio esperto,
del cui freno ha bisogno il tuo furore;
tu la possanza adopri e non la mente,
io discorro il futur come presente.