Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/271

39
Che? fuggi forse anch’egli? Io vidi (e tale
spettacol m’arse di vergogna il vólto)
quando le spalle tu volgesti, e l’ale
avevi a’ legni per fuggire sciolto.

Io gridai tosto: — O che furor v’assale
di lasciar questo mur giá in cener vólto?
Siete stati dieci anni ad esso intorno;
che riportate in Grecia altro che scorno? —
40
Con queste ed altre che ’l dolore espresse
io rivoltai l’armata, e pel mio dire
chiama Atride le genti in fuga messe;
né pur la bocca ardisce Aiace aprire,
e ’l vii Tersite infino il re corresse,
bench’ei punisse il temerario ardire:
io gli sprono a la pugna e co’ miei detti
ripongo il cor negli smarriti petti.
41
Da indi in qua le costui prove ascrivo
a me che la sua fuga indietro ho volta.
Finalmente qual è nel campo argivo
che l’amicizia teco abbia raccolta?

Ma Diomede, del suo Ulisse privo,
non muove orma, non parla e non ascolta;
e non è poco essere eletto solo
da si gran cavaliere in si gran stuolo.
42
Non mi stringea la sorte a girvi, e pure,
de la notte sprezzato ogni periglio,

Dolone, il fello, che qual noi l’oscure
torme spiava de’ nimici, io piglio^
e pongo, per saper, tutte le cure
de la perfida Troia ogni consiglio,
e, veduto e cercato in ogni intorno,
giá potea far con laude a voi ritorno.