Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/270

35
A cui, se fosse Aiace ito, sarièno
vedove de’ lor venti ancor le vele.

Al palagio di Troia, allora pieno,
me ne vado orator pronto e fedele
e l’imposta ambasciata espongo appieno
con intrepido petto e fo querele
al rubator de la figlia di Leda
e con lei ridomando ancor la preda.
36
E col mio dir al voler vostro arreco
con Antenor quel re ch’i frigi affrena:
ma Paride e i fratelli e quei che seco
si trováro a rapir la bella Elèna
le scellerate man (tu, ch’eri meco,
ben il sai, Menelao) tennero appena:
è lungo a dir quel che nel suol troiano
ho fatto col consiglio e con la mano.
37
Dopo le prime scaramucce stanno
dentro a le mura gl’inimici, e fuora
pugna fassi, tratto il decim’anno.

Tu che facevi? in che adoprasti allora
le forze tue, che sol combatter sanno?
Ma se cerchi i miei fatti, ciascun’ora
tendo insidie, riparo, armo e proveggo,
conforto i nostri e tutto il campo reggo.
38
Ecco, spinto da Giove e dal fallace
sogno, comanda il re, di scusa degno,
lasciar l’impresa: or noi comporti Aiace;
tolga la vita agl’inimici e’l regno;
perché non ferma la turba fugace?
perché non fa di prender l’armi segno?
E non era ciò troppo ad un che suole
vantarsi ognor di prove altère e sole.