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CXVII

A un amico sfortunato in amore.

Ripanzio mio, per far venire a riva

10 stanco legno tuo, si mosse un fiato,
ch’ai suo dolce spirar, soave e grato,
l’aere e l’onda mormorar s’udiva;

i miei sospiri, a cui la strada apriva

11 rimembrar del tuo misero stato,
giunsero in poppa a la dolce aura a lato,
onde a vele gonfiate in porto giva.

Era sereno il ciel, l’aura tranquilla,
quieto il mar; ma nulla, aimè! ne valse
contra la rabbia di Cariddi e Scilla.

So che d’un tal naufragio assai ti calse;
ma premer non ti dee s’ogni favilla
resta seco sommersa in Tonde salse.

CXVIII


A una nnbil donna appartatasi da Roma.

Donna reai, qua giú dal cielo scesa,
acciò che ’l mondo in riverenza v’aggia,
ché di voi né piú bella né piú saggia
ancor non vide o piú d’onore accesa,
se i piú superbi tetti a voi non pesa
lasciar per verde e solitaria piaggia,
come di star fra gente aspra e selvaggia
non ne riman si nobil alma offesa?

A voi dunque voi stessa e ’l proprio lume
rendete ai chiari spirti, a queste membra
l’alma che ’l suo pensier v’apre e rivela;

rendete a Roma ogni gentil costume,
ch’or nuda giace e senza voi rassembra
vite senz’olmo e senz’antenna vela.