Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/180

Era di maggio e gli uccelletti gai
ragionavan d’amore e l’erbe e Tacque:

135 qual maraviglia poi s’io m’invescai?

Quanto poi vidi dopo lui mi spiacque:
ma, com’egli s’accorse, ebbe piú a schivo
138 la vista mia ch’a me la sua non piacque;

e me n’andai d’ogni sua grazia privo,
ed era di mercé chiamar giá roco,

141 per lungo spazio ognor fra morto e vivo.

Io sentia consumarmi a poco a poco
né sapea disamar né trovar modo
144 che non prendesse ogni mio male a gioco;

alfin, come pur d’Ifi infelice odo,
con altro laccio, se maggior paura
147 non m’affrenava, avria troncato ’l nodo.

Io godea sol per furto e per ventura
la disiata vista e i cari accenti,

150 né piú chiedea la mia voglia alta e pura:

convien eh’ io formi tutt’ il giorno e tenti
nove chimere e nove imprese e cange
153 vari costumi e luoghi e varie genti.

Crispo allora, nostr’Argo, il duol che m’ange
vede e me spinge a custodire ’l gregge
156 nel sasso che Sentino arrota e frange.

O infortunata mandra, a te pon legge
un miser servo, e chi de’ sensi è fuore
159 le pecorelle tue governa e regge !

Non per assenzia scema il cieco ardore;
valli profonde cerco, erte pendici;

162 ma sempre al fianco io mi ritrovo Amore.

Oh quante volte i miei lumi infelici
lacrimando volgea verso quel cielo
165 che piú ricopre i nostri colli aprici!

Squarciato alfin d’ogni rispetto il velo,
torno bramoso a riveder quel volto
168 ch’ai cor mi fisse ’l velenoso telo.

Veggio i begli occhi e le parole ascolto:
tanto ciascun per me travaglia e prega
171 ch’io son da lui benignamente accolto;