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O mio folle desio, tu pur mi tiri
a ricordar quel volto, oimè ! da cui
non ebbi mai se non guerra e martiri!

Ah che fu meglio lacrimar per lui
che gioir per qualunque, e la bellezza
sua riverir che posseder l’altrui!

E s’egli sempre t’ha sprezzato e sprezza
a la tua indegnitá te il tutto ascrivi,
non a sua crudeltá né a sua durezza;

e se par che i tuoi passi ancóra schivi,
tu da lungi l’inchina e con lo spirto
sempre l’adora e di lui parla e scrivi.

Di’ come al crine inanellato ed irto
in quel giorno tessea Venere e Flora
qual ghirlanda di rose e qual di mirto;

di’ come il biondo suo vince e scolora
l’ambra, il topazio, l’oro e qual somiglia
che nel ciel pinge al suo partir l’aurora;

de la fronte il sereno e de le ciglia
il sottil arco e ’l ben locato naso,
che stupir fanno altrui di maraviglia.

Ma qual musa di Cinto o di Parnaso
scende a parlar de le due chiare stelle
che fúr del viver mio l’orto e l’occaso?

Il ciel non vide mai luci si belle:
qui pose Amor l’insegne e: — Queste — disse
sieno i miei lacci, i dardi e le facelle. —

Vidi, tenendo in lor mie luci fisse,
versar gioia, dolcezza e grazia e quanto
ne le tre suore il Fiorentino scrisse:

quel non so che divino e da lui tanto
e dagli altri accennato e non espresso,
si scorgea chiaro in quel bel lume santo;

e, se non era il batter gli occhi spesso,
tanto splendor mirando, io sarei morto,
da soverchia dolcezza il core oppresso.

Paradiso terreno e celeste orto
dirò le guance, dove eterno aprile
tra rose e gigli siede a suo diporto;