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Contesser può ch’un si cortese affetto,
si dolce vista, si leggiadro viso,
che mi sgombrò d’ogni gravezza ’l petto
e fé’ vedermi in terra ’l paradiso,
or sia cagion di tonni ogni diletto
e rivolgere in pianto il canto e ’l riso?

Amor, com’esser può (fa ch’io l’intenda)
ch’ogni mio mal da sua salute penda?
4
Io dunque son da voi straziato tanto,
io che tanto v’apprezzo e tanto onoro
dunque ridete voi, voi del mio pianto,
voi cui sol chieggio, sol inchino e adoro?
a me, ch’ognun per voi post’ho da canto,
date questo flagel, questo martoro?
tormentate cosi chi non v’ha offeso?
or quando mai fu’l maggior torto inteso?
5
Qual peccato, qual fallo o qual errore
se non d’amarvi troppo ho mai commesso?

Né me di questo, ma incolpate Amore
e ’l ciel che v* ha troppa beltá concesso;
ma s’io donato v’ho l’anima e ’l core,
beneficio il chiamate e non eccesso;
ché piú bel don di quel ch’a voi face’io
non che a mortai, ma non può farsi a un dio.
6
Se il Re del cielo ha questo don si accetto
ch’altrui concede il regno suo per merto,
che dovete far voi che ’l piú perfetto
cuor che mai fusse e’l piú fedel v’è offerto?
Né io da voi per mia mercede aspetto
che gli angel mi mostriate o ’l cielo aperto,
ma i begli occhi e la fronte e ’l dolce riso,
piú grato a me ch’a l’alme il paradiso.