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libro sestodecimo - cap. x 319

sistenza alcuna; dove, se fusse libero, poteva dubitare che, con lo ingegno con l’esperienza con la riputazione, difficultasse molto i suoi disegni. Era ancora necessario che Cesare avesse in potestá sua la persona del Morone, stato autore e instrumento di tutte le pratiche, per potere col suo processo giustificare le imputazioni che si davano al duca di Milano. Non è cosa alcuna piú difficile a schifare che il fato, nessuno rimedio è contro a’ mali determinati. Poteva giá conoscere il Morone che la pratica tenuta col marchese di Pescara era vana; sapeva di essere in grandissimo odio appresso a tutti i soldati spagnuoli, tra i quali giá molte cose della sua infedeltá si dicevano; e che Antonio de Leva publicamente minacciava di farlo ammazzare; non è credibile non considerasse la importanza della sua persona, che non vedesse in che grado si trovava il duca di Milano, inutile allora e quasi come morto; tra loro, giá molti dí innanzi, era ogni cosa sospesa e piena di sospizione: ognuno lo confortava a non andare, egli medesimo ne stette ambiguo. Nondimeno, o avendo ancora occupato l’animo dalle simulazioni e dalle arti del marchese o facendo fondamento nella amicizia grande che gli pareva avere contratta con lui, o confidandosi della fede la quale disse poi avere avuta per una sua lettera, o per dire meglio tirato da quella necessitá, che trascina gli uomini che non vogliono lasciarsi menare, si risolvé di andare quasi a una carcere manifesta: cosa a me tanto piú maravigliosa quanto mi restava in memoria avermi il Morone detto piú volte nello esercito, al tempo di Leone, non essere uomo in Italia né di maggiore malignitá né di minore fede del marchese di Pescara. Fu ricevuto da lui benignamente; e soli, in camera, parlorono delle prime pratiche e di ammazzare gli spagnuoli e Antonio de Leva, ma in luogo che Antonio, che dal marchese era stato occultato dietro a uno panno d’arazzo, udiva tutti i ragionamenti; dal quale, partito che fu dal marchese, che fu il quartodecimo dí di ottobre, fu fatto prigione e mandato nel castello di Pavia. Nel quale luogo andò il marchese proprio a esaminarlo sopra quelle cose che insieme avevano trattate; messe in processo