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che il solito avessino a sospetto la ambizione di Cesare, conciossiaché, con ammirazione e quasi querela di tutta Italia, non avesse investito Francesco Sforza del ducato di Milano. Movevagli oltre a questo l’autoritá del pontefice, i cui consigli ed esempio in questo tempo non mediocremente risguardavano.

Ma il re di Francia, accostatosi a Pavia dalla parte di sopra, tra il fiume del Tesino e la strada per la quale si va a Milano, fermata la vanguardia nel borgo di Santo Antonio di lá dal Tesino, in sulla strada che conduce a Genova, egli alloggiato alla abbazia di San Lanfranco lontana un miglio dalle mura, batté con l’artiglierie da due parti due dí le mura, e dipoi con l’esercito ordinato cominciò a dare la battaglia; ma apparendo la terra dentro essere bene riparata e dimostrandosi gli inimici molto valorosi a difendersi, e per contrario vedendosi ne’ suoi manifesti segni di temenza e giá essendone stati ammazzati molti, dette il segno di ritirarsi; e comprendendo quanto fusse difficile l’espugnare una cittá, difesa da tanti uomini di guerra, coll’impeto delle battaglie, si voltò a opere di trincee e di cavalieri con grandissimo numero di guastatori, intento a tagliare i fianchi perché i soldati piú sicuramente vi si accostassino. A questa opera che si dimostrava lunga e difficile aggiunse il fare le mine, per pigliarla, se altrimenti non gli riuscisse, a palmo a palmo; e ultimatamente, facendolo molto diffidare la virtú e il numero de’ difensori, avuto il consiglio di molti ingegnieri e periti del corso del fiume, il quale due miglia sopra a Pavia si divide in due corni, e poi un miglio di sotto, innanzi che entri nel Po, si ricongiugne, deliberò di divertire il ramo che passa allato a Pavia nel ramo minore detto il Gravalone, sperando dovergli poi essere facile spugnarla da quella parte donde il muro, per la sicurtá che dava la profonditá dell’acque, niuno riparo aveva. Nella quale opera, tentata con moltitudine quasi innumerabile d’uomini e con grandissima spesa, né senza timore di quegli di dentro, consumò molti dí; ora rovinando l’impeto dell’acqua, la quale per le pioggie immoderate grossissima era divenuta,