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libro undecimo - cap. xvi 297

Gurgense rappresentasse come l’altre volte la persona di Cesare in Italia, nondimeno, pretermesso il fasto consueto, era entrato in Roma modestamente né voluto usare per il cammino le insegne del cardinalato, mandategli insino a Poggibonzi dal pontefice. Alla venuta del cardinale Gurgense fu fatto compromesso da lui e [da] gli oratori viniziani, di tutte le differenze tra Cesare e la loro republica, nel pontefice; ma compromesso piú tosto in nome e in dimostrazione che in effetto e in sostanza, perché niuno volle compromettere nell’arbitro sospetto, per l’importanza della cosa, se non ricevuta promessa da lui separatamente e secretamente di non lodare senza suo consentimento. Fatto il compromesso, sospese per uno breve l’offese tralle parti; il che, benché fusse accettato da tutti con lieta fronte, fu dal viceré male osservato, perché venuto tra Montagnana ed Esti, non avendo dopo la vittoria fatto altro che prede e correrie, e mandata una parte de’ soldati nel Pulesine di Rovigo, faceva in tutti questi luoghi molti danni, ora scusandosi che erano territorio di Cesare ora dicendo aspettare avviso da Gurgense. Né ebbe il compromesso piú felice il fine che avesse avuto il mezzo e il principio, per le difficoltá che nel trattare le cose si scopersono; perché Cesare non consentiva alla concordia se non ritenendo parte delle terre e per l’altre ricevendo quantitá grandissima di danari, e per contrario i viniziani dimandavano tutte le terre e offerivano piccola somma di danari. E si credeva che il re cattolico, benché palesemente dimostrasse di desiderare, come giá aveva fatto, questa concordia, ora occultamente la dissuadesse; interpretandosi che, per difficultarla piú, avesse nel tempo medesimo lasciato Brescia in mano di Cesare: la quale il viceré, affermando ritenerla per renderlo piú inclinato alla pace, non gli aveva insino a quel dí voluto consentire. Le cagioni si congetturavano variamente, o perché avendo offeso tanto i viniziani giudicasse non potere avere piú con loro sincera amicizia o perché conoscesse la riputazione e grandezza sua in Italia dependere da mantenere vivo quell’esercito; il quale, per carestia di danari, non poteva nutrire se non opprimendo