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libro undecimo - cap. xiii 283

nardino Carvagial e di Federico da San Severino, nella quale, non si nominando cardinali, approvavano tutte le cose fatte nel concilio lateranense, promettevano di aderire a quello e di ubbidire il pontefice, onde in conseguenza confessavano essere stata legittima la privazione loro dal cardinalato; la quale, fatta da Giulio, era stata confermata, esso vivente, dal medesimo concilio. Erasi trattato prima di restituirgli, ma differito per la contradizione degli oratori di Cesare e del re d’Aragona, e de’ cardinali sedunense ed eboracense, i quali detestavano come cosa indegna della maestá della sedia apostolica e di pessimo esempio, il concedere venia agli autori di tanto scandolo e di uno delitto tanto pernicioso e pieno di tanta abominazione; ricordando la costanza di Giulio ritenuta contro a loro, né per altro che per il bene publico, insino all’ultimo punto della vita. Ma il pontefice inclinava alla parte piú benigna, giudicando piú facile spegnere in tutto il nome del concilio pisano con la clemenza che col rigore, e per non esacerbare l’animo del re di Francia, il quale instantemente supplicava per loro; né lo riteneva odio particolare, non essendo stata la ingiuria fatta a lui, anzi, innanzi al pontificato, stati congiuntissimi i fratelli ed egli con Federico. Per le quali ragioni, seguitando il proprio giudicio, aveva fatto leggere innanzi a’ padri del concilio la scrittura della loro umiliazione, e dipoi statuí il dí alla restituzione; la quale fu fatta con questo ordine: entrorno Bernardino e Federico in Roma occultamente di notte, senza abito e insegne di cardinali; e la mattina seguente, dovendo presentarsi innanzi al pontefice residente nel concistorio, accompagnato da tutti i cardinali, eccettuati il svizzero e l’inghilese che ricusorno di intervenirvi, passorno, prima vestiti da semplici sacerdoti colle berrette nere, per tutti i luoghi publici del palagio di Vaticano, nel quale la notte erano alloggiati; concorrendo moltitudine grandissima a vedergli, e affermando ciascuno dovere [essere], questo vilipendio cosí publico, acerbissimo tormento alla superbia smisurata di Bernardino e alla arroganza non minore di Federico. Ammessi nel concistorio, dimandorno genuflessi, con segni di grandissima