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libro quarto — cap. vii 339

Firenze a’ consigli e alle dimande di Pagolo: e molto piú che la guerra non procedeva con molta sua riputazione appresso al popolo, perché e qualche fazione importante era stata fatta piú da’ paesani che da’ soldati e perché, per l’opinione grande che avevano del suo valore, si erano promessi molto prima la vittoria degli inimici; attribuendo, come è natura de’ popoli, a non volere quello che si doveva attribuire piú presto a non potere, per l’asprezza de’ tempi e per il mancamento delle provisioni. E però, tardandosi di fare l’augumento de’ quattromila fanti, ebbe tempo il conte di Pitigliano di venire a Castello d’Elci, castello del ducato d’Urbino vicino a’ confini de’ fiorentini, ove prima erano Carlo Orsino e Piero de’ Medici, e ove si faceva la massa di tutte le genti per passare l’Apennino; le quali si ordinavano, come piú atte alla fortezza e alla penuria del paese, piú copiose assai di fanteria che di uomini d’arme, e questi piú presto con leggiera che con grave armadura. Fu questo l’ultimo sforzo che feciono i viniziani per le cose del Casentino. Il quale per interrompere, Pagolo Vitelli, lasciato leggieri assedio intorno a Bibbiena e la guardia necessaria a’ passi opportuni, andò col resto delle genti alla Pieve a Santo Stefano, terra de’ fiorentini situata al piede dell’alpi, per opporsi agli inimici nello scendere di quelle. Ma il conte di Pitigliano, avendo innanzi a sé l’alpi cariche di neve, e a piè dell’alpi l’opposizione potente e la strettezza de’ passi, difficili, quando si ha ostacolo, non che altro ne’ tempi benigni, a superare, non ardí mai di tentare di passare; con tutto che con gravi querele ne fusse molto stimolato dal senato viniziano, piú veemente, secondo diceva egli, a morderlo che sollecito a provederlo: e se bene gli fussino proposti disegni di qualche diversione, e giá in Valdibagno fusse data qualche molestia alle terre de’ fiorentini, non fece, per questo, momento alcuno.

Ma quanto piú procedevano fredde l’opere della guerra tanto piú riscaldavano le pratiche dello accordo, desiderato per diversi rispetti dall’una parte e dall’altra, ma non meno desiderato e sollecitato dal duca di Milano; il quale, spaventato