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e dimostrandosi valorosamente Ferdinando e molestandogli molto l’artiglierie, massimamente quelle che erano piantate in sul poggio di Pizzifalcone, il qual poggio è imminente a Castel dell’Uovo, e dove giá furono le delicatezze e le suntuositá tanto famose di Lucullo, non potettono passare piú innanzi né accostarsi a Cappella, né avendo facoltá di soggiornarvi, perché la natura, benignissima a quella costiera di tutte l’altre amenitá, gli ha dinegato l’acque dolci, furono costretti a ritirarsi piú presto che non arebbono fatto, lasciati nel levarsi due o tre pezzi d’artiglieria e parte delle vettovaglie condotte per mettere nelle castella, e se ne andorono verso Nola: a’ quali per opporsi, Ferdinando, lasciato assediato il castello, si fermò con le sue genti nel piano di Palma presso a Sarni. Ma Mompensieri, privato per la partita loro di ogni speranza di essere soccorso, lasciati in Castelnuovo trecento uomini, numero proporzionato non meno alla scarsitá delle vettovaglie che alla difesa, e lasciato guardato Castel dell’Uovo, montato di notte, insieme con gli altri che erano dumila cinquecento soldati, in su’ legni della sua armata, se ne andò a Salerno: non senza gravissime querele di Ferdinando, il quale pretendeva non gli essere stato lecito, pendente il termine dello arrendersi, partirsi con quelle genti di Castelnuovo se nel tempo medesimo non gli consegnava quello e Castel dell’Uovo; e perciò non fu senza inclinazione, seguitando il rigore de’ patti, di vendicarsi, col sangue degli statichi, di questa ingiuria e del mancamento di Mompensieri, perché al termine convenuto non furono arrendute le castella. Ma passato il tempo circa a uno mese, quegli che erano rimasti in Castelnuovo, non potendo piú resistere alla fame, si arrenderono con condizione che fussino liberati gli statichi; e quasi ne’ dí medesimi patteggiorno, per la medesima cagione, quegli che erano in Castel dell’Uovo, di arrendersi il primo dí della prossima quadragesima, se prima non fussino soccorsi.

Morí quasi circa a questo tempo a Messina Alfonso di Aragona, nel quale, asceso al regno napoletano, si era convertita in somma infamia e infelicitá quella gloria e fortuna