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150 le ore inutili


La voce di Nora s’abbassò e s’interruppe. Ella chinò il viso rabbuiato su la sua tazza sfuggendo per un momento allo sguardo di Riccardo che gettava all’aria larghe boccate di fumo torcendo la bocca con disprezzo.

— Per farsi pagare i debiti, — egli concluse con una smorfia espressiva, e soggiunse a mezza voce: — e per fuggirsene poi chi sa dove, a finire i suoi giorni chi sa come. — Buttò la sigaretta, la guardò fumigare e spegnersi sul portacenere d’argento, e s’alzò parlando con ostentata gaiezza: — Dunque, che cosa ti ha narrato la tua informatrice su quel blasonato rudere umano?

— Ti ho già ripetuto tutto quanto so, — rispose Nora di nuovo rinfrancata. — Che ha un titolo, molti quattrini, quasi sessant’anni e che si tinge capelli e barba con una miscela di sua fabbricazione che, per ragioni d’economia, si prepara egli stesso nel mistero impenetrabile di casa sua dove nessuno è entrato mai.

— Magnifico! — esclamò Riccardo in una beffarda risata. — Quell’uomo è il poema della sordidezza, è l’apoteosi vivente dell’avarizia.

— Qui nella casa e nei dintorni, — informò Nora, — lo chiamano soltanto “l’uomo tinto„, perchè quell’intruglio quasi nero e molto semplicista di cui s’impiastriccia il viso, sconfina spesso