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l’erede


— Meno male che fu lo zio a cercarmi una moglie ed a scegliere proprio te, — le disse un giorno brutalmente Anselmo, — almeno io non ho nessuna colpa di questa tua disgraziata sterilità. A che ti han servito tanta gioventù, tanta freschezza, tanto candore se sei e sarai sempre incapace di mettere al mondo un figlio?

La contessa Doretta piangeva in silenzio, infantilmente, non sapendo come rispondere nè come difendersi dalle accuse di suo marito.

E venne il giorno in cui il conte Ciro non rivolse più la parola ai nipoti ed il conte Anselmo non rivolse più la parola alla moglie.

Essi abitavano tutti e tre nel medesimo palazzo, s’aggiravano per le stesse sontuose camere, erano serviti dagli stessi domestici, ma vivevano separati da un disaccordo profondo, quasi da un odio irreconciliabile.

La più infelice, perchè maggiormente colpevole di tanto dissidio e perchè più debole e più giovane, era la contessa Dora, la quale dopo tre anni di matrimonio, ancora quasi bambina d’anima e di sentimento, e perciò incapace di ribellione e di proteste, si riduceva a vivere come una vecchia o un’inferma, sola, stanca e avvilita, rinchiusa nelle sue stanze, senz’altra distrazione che qualche passeggiata in carrozza e le frequenti visite alla sua chiesa preferita.

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