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la porta della gioia


Le tre e un quarto. Il tempo non passò più. Portò all’orecchio l’orologio e sebbene andasse benissimo, lo caricò.

Tornando dalla posta udì un cozzar di palle da bigliardo e un vociare giocondo. Fu tentato d’entrare, ma gli parve un gioco da studenti e e da garzoni parrucchieri.

Ripensò alla lettera di Maria Farnese: «Sarò come una fanciulla spaurita che cerchi rifugio». No. Non diceva spaurita. C’era un’altra parola: «sarò come una fanciulla... una fanciulla....» Ma che importanza ha tutto questo? D’un tratto si ricordò: «una fanciulla sperduta che cerchi asilo fra le vostre braccia».

Pranzò a casa. Alle otto aveva finito. Si rase accuratamente impiegando in tale operazione il doppio del tempo consueto: cercò la più bella cravatta, scelse gli anelli più fini, provò la spilla con la miniatura dell’Isabey, ma il fondo turchino sembrava nero alla luce artificiale. Provò la miniatura del Lawrence contornata di diamanti di vecchia cava, bruni come vetro appannato e sommersi in grossi castoni di platino. Ma era troppo larga sul piccolo nodo della cravatta, sul quale non s’addattava che un rubino, una perla o un diamante. Il rubino, la perla, o il diamante? E dopo un lungo indugio dinanzi allo specchio si decise per lo smeraldo.

Si lasciò cadere sui risvolti della giubba

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