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la porta della gioia

lo aveva interotto. Rilesse la lettera e buttò il libro.

Il cutter lo attendeva con la vela spiegata per la solita gita mattutina. Quel giorno la gita fu più lunga, com’era stato più lungo il sonno; egli voleva abbreviare quant’era possibile la giornata d’ansia e d’attesa. Quando fu assai lontano dalla costa lasciò che la navicella andasse a caso e si adagiò sui cuscini del fondo, contemplando la collina.

La villa saracena che nella sua grazia civettuola era costrutta a guisa di castello, segnava un quadrangolo rosso su una rupe bruna. Egli vi riconobbe con la fantasia la gran porta in legno di cedro che aveva spesse volte esaminata con occhio d’artista: ricordava l’ingenua storia d’amore intagliata col coltello, la torre tappata da licheni, i cipressi scattanti verso l’alto, come severi custodi, i ramarri anemici intenti a far la cura del sole sul cancello di ferro martellato, i leggendari cigni oziosi nel piccolo lago verde, fra i nenufari d’ambra e d’avorio.

Dalla spiaggia un gaio sciame di fanciulle gli fece visibili cenni di richiamo: con una mossa lenta di timone e con una rapida manovra di vele, diede al cutter il garbato esatto agile movimento di un compasso e lo fece tornare sulla propria scìa. Quando fu all’approdo era mezzogiorno: ancora un giro d’orologio! Il servo

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