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Monte Coronaro 77

deva un povero diavolo, giovane ancora ma curvo e disfatto, con due occhi che parevano buchi con una scintilla in fondo.

Serrava tra le ginocchia le mani stecchite e chinava sul petto la barba nerissima. Era il marito dell’ostessa e la gelosia non lo rodeva, ma la febbre maremmana. Nel pieno vigore dell’età e della forza si sentiva ardere e consumare il sangue dentro e con un accento di cupa malinconia ci contava gli stenti della maremma dove scendeva nell’inverno a fare il guardiano per non so qual principe. Di quando in quando un tremito ed una contrazione spasmodica delle mascelle gli strozzavano il discorso nelle fauci e allora fissava gli occhi profondi nei carboni accesi come se ci vedesse qualcuno. L’ostessa intanto, piena di una mobilità nervosa, ammanniva il nostro desinare scherzando ed occhieggiando col cicisbeo, mentre in un angolo la sua figliastra, piuttosto belloccia, filava tutta pensierosa e seguiva ostinatamente cogli occhi le evoluzioni degli innamorati, senza aprir bocca mai, senza scomporre la seria immobilità del volto.

Così ci fu spiegato come si possa vegetare su questi monti di cenere arida. I maschi scendono ad avvelenarsi in maremma, e le femmine, prima che siano morti, passano a seconde nozze.

Dopo il pasto frugale gli amici miei si buttarono su certi aculei che a Monte Coronaro chiamano letti. Io che di giorno non posso dormire, volli sedermi sullo scalino dell’uscio, ma le mosche, le quali fin dal pranzo ci avevano intimata una guerra feroce, o fosse