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Monte Coronaro 75

il breve fiato ce lo avesse permesso, avremmo recitato i più terribili versi della discesa dantesca in Malebolge, tutto di pietra e di color ferrigno.

A mezza costa, in un pianerottolo dove per ironia c’era un po’ d’erba e un po’ d’acqua, sedemmo a mangiare un boccone, e poi giù di nuovo col sole in faccia e il cielo che pareva uno specchio d’acciaio. E, come piacque al destino, dopo un’ora di questa terribile via, ci trovammo giù in fondo, sotto Folcente, accanto ad una croce di pietra, in un poco d’ombra. Ci buttammo tutti sull’erba a respirare; anche la guida. La voluttà di un quarto d’ora di riposo ce l’eravamo guadagnata.

Poi su di nuovo, verso Montioni, sudando sempre, ansando sempre. Non più alberi, non più erba, non un segno di vegetazione. Il terreno franoso, friabile, cenerognolo, non consente la vita nemmeno alla gramigna e tutto porta il marchio di una desolazione squallida, di una aridità grigia da non invidiare il deserto. Ci pareva di camminare sulle ceneri semispente di un focolare, e nell’aria secca ed infocata, il riflesso del sole accecava e le ombre si disegnavano dure, taglienti, nerissime. A sinistra, negli sbattimenti bianchi della luce meridiana, strizzando gli occhi si discerneva Verghereto, povero comunello perduto su questi monti ingrati cui gli annali Camaldolesi tentarono indarno di acquistar fama col supposto castello di Uguccione della Faggiola. E via via, per questa cenere maledetta che le acque pioventi trasformano in lisciva e portano al Savio, per questi declivi calcinati che franano ad ogni stagione,