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per la stampa le prime ventotto terzine riducendole a venticinque molto rivedute e molto corrette. Certo un contraffattore poteva tener conto delle lettere, imitare la calligrafia e lavorare sulle terzine stampate; ma la persona che ritrovò e diede alle stampe la cantica è incapace di fare un tiro simile al buon pubblico. Non resta dunque se non concludere che questa povera roba imitata, messa insieme a pezzetti come un mosaico, sia proprio di Giacomo Leopardi quasi ventenne, che non conoscevamo ancora, di un Leopardi scolaretto senza esercizio di comporre, senza gusto di lingua, senza lume di poesia. Bisogna rassegnarsi a credere che questo imparaticcio sia stato messo insieme un anno dopo al Saggio sugli errori popolari degli antichi, nell’anno stesso dell’Inno a Nettuno e delle Iscrizioni triopee; un anno o due prima delle più celebri, delle più gloriose poesie della letteratura moderna. È dura, ma è così.

Questa pubblicazione avrà questo almeno di utile, che farà veder chiaro come gli ingegni più forti e più grandi non si riconoscono più quando cadono nel peccato d’imitazione. Certo si danno delle mostruosità in natura, come il Monti, il quale seppe diventar grande in gran parte imitando; ma simili organismi sono veri capricci della natura, come le mosche bianche e i cigni neri, e non bisogna fidarsene perchè sono fuori della legge comune. Perchè c’è stato un Mozart, non tutti i piccoli pianisti arriveranno a scrivere il Don Giovanni, e il caso del Leopardi dovrebbe far riflettere molto coloro che sono fanatici dei modelli di bello scrivere, delle antologie usate altrimenti che