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L’imitazione e Giacomo Leopardi | 421 |
del quarto lustro, com’egli stesso dice: non si sa davvero se giudicarlo coi criteri applicabili ai giovanetti che tentano i primi canti o giudicarlo come opera di un grande ingegno maturato già da lungo studio, dalla sventura e dalla solitudine. Quest’ultimo giudizio però riuscirebbe così giustamente severo che, per quanto contrario alla precocità ammessa e provata dell’infelice poeta, bisogna cacciare il dubbio e finire col credere che il Leopardi quasi ventenne fosse su per giù quel che sono gli altri giovani di quell’età e di discreto ingegno. Imbroglio, contraddizione se volete, ma davvero non saprei come uscirne. O negare la precocità provata, o dir bello un lavoro brutto. Io scelgo il primo corno del dilemma, e ritengo la cantica opera di un adolescente non superiore alla sua età; il che non fa torto a nessuno.
Il pretonzolo al quale fu affidata l’istruzione dei giovani conti Leopardi doveva aver bene insistito sulla necessità dell’imitare i classici, poichè vediamo l’allievo imitar tanto che qualche volta copia addirittura. La lingua, che non si può inventare, tradisce tuttavia uno studio di arcaicità che nocerebbe senza dubbio alla spontaneità del poema, quando spontaneità ci fosse. La lingua, sul finire del Settecento e durante il dominio francese, s’era impinzata di tanta roba straniera da muover la nausea e venne necessariamente una reazione. Fu allora che il Cesari, il Puoti, il Perticari, il Giordani e tanti altri predicarono la crociata contro i neologismi forastieri in nome dell’aureo Trecento. Si tornò all’antico, accettando ad occhi chiusi il buono ed il cattivo di una lingua