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Per un sonetto 389


Io toso intanto e fo tosar dai frati
     Questo mio gregge mansueto e grasso
     Di pecore, di becchi e di castrati.

argia sbolenfi



Non ho più il numero del “Lamone” dove questo orrendo delitto, questo reato abominevole, fu stampato. Cito sopra l’abbozzo che trovo tra le mie cartacce e può darsi, ma non credo, che qualche parola non combini. Non gridino però, se ciò fosse accaduto, che ci sia alterazione od attenuazione meditata e voluta. “I nostri non appreser ben quell’arte” e ad ogni modo Ella ha sotto gli occhi il testo vero che riconosco e che ho riconosciuto ed al quale mi riferisco.

E prima di cominciare il commento, consideri, La prego, il titolo e lo ricordi. Quello sì, fu meditatamente e volutamente messo a quel posto, per indicare che al Vescovo e non al privato si dirigeva l’ironico discorso. E parla il pastore, e al Pastore soltanto, salvo una impertinenza al suo gregge, tutti i quattordici versi sono indirizzati e dedicati, nella sua qualità di pubblico anzi di Regio Ufficiale, perchè munito del Regio exequatur. Monsignor Giovacchino Cantagalli non lo conosco nemmeno di veduta. Mi dicono che sia butterato, mal spedito nella favella e giunto oramai a quella veneranda decrepitezza che, come vediamo qui in Ravenna, apre le porte ad audacie prepotenti davanti le quali lo stesso Santo Uffizio si rivolta ed assolve. Ma che importa a me