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Per un sonetto 381

plare del “Lamone” ch’io vedessi mai in vita mia. Lo lessi per vedere se c’erano errori di stampa, non mi piacque il carattere eteroclito con cui l’avevano impresso ed Ella mi crederà se vuole, ma protesto dirle la verità, non lessi del resto fuor che certi altri versi infelici come i miei, solo perchè l’occhio mi ci attirò come roba del mestiere. Il giornale fu perso tra i tanti che per ogni verso mi giungono; finì forse nei bassi uffici della cucina o d’altro e non ne rividi un nuovo esemplare che nelle mani del signor Pretore; esemplare che dopo l’interrogatorio firmai “per visione”. Tanto interesse, se Ella mi vuol credere ancora, destavano in me queste polemiche municipali e lontane, nelle quali non avevo nè arte nè parte, benchè il mio modo di pensare me le facesse vedere con simpatia, e che non potevo imaginare, almeno per quel che mi riguarda, destinate ai clamori di un processo più di partito che di persone.

E non pensavo più, nemmeno come a prossimo, al Vescovo di Faenza, quando i giornali di qui annunziarono che Monsignore aveva querelato il “Lamone” e che i versi della “Sbolenfi” erano compresi nella querela. Prima restai sorpreso e poi mi dissi che, se fosse stato vero, o gli amici o gli uscieri me l’avrebbero fatto sapere. Mi strinsi nelle spalle e non scrissi nemmeno a Faenza per informarmi. Se Monsignore non me lo vietasse potrei provare anche questo.

E seguitai a non pensarci più quando, così all’improvviso, mi giunse il mandato di comparizione