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Per un sonetto 371

Signore, che abita qui e per ragione dell’alto ufficio suo conosce il popolo nostro, può insegnare a me l’effetto che produrrà la cosa. Diranno che Monsignore ha paura e in Romagna il solo sospetto di paura genera disistima e disprezzo. Diranno che Monsignore vuol soffocare con la violenza ogni principio di prova, ed in Romagna la violenza partorisce la violenza.

Ma non sono più i tempi del Sant’Uffizio e della Sagra Consulta, quando colla difesa si poteva sopprimere anche l’imputato. Quei metodi di giudizio possono essere rimpianti, desiderati e forse, nelle tenebre, si opera perchè ritornino; tuttavia, se potrà esser strozzata la voce dell’imputato davanti ai Giudici, il pubblico l’ascolterà egualmente. E l’ascolterà, spero, anche Lei, Onorando Signore, al quale mi rivolgo con ogni maniera di rispetto, poichè Le dichiaro che qui non voglio offendere, ma soltanto difendermi.

Ed ecco la storia di quei disgraziati quattordici versi.

Abito da più che trent’anni in Bologna, ma vincoli di parentela e di affetto mi legano ancora alla regione natia. Ne ho le notizie, le cerco anzi e seguo le vicende del pensiero e della vita romagnola con avida curiosità. Vidi il cauto lavorìo che il partito clericale, sotto colore di religione e con varia fortuna, intraprese già da per tutto. Ho visto ai primi timidi tentativi confinati nelle chiese, succedere l’au-